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Issue #035 Non sarà proprio l’algoritmo il peggiore bullo sui social media?
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Collage image featuring internet and social media notifications and characters from Mean Girls alongside negative and positive comments Parveen Narowalia

Non sarà proprio l’algoritmo il peggiore bullo sui social media?

Se il mondo online fosse il film Mean Girls, scommetto che i social media sarebbero Regina George. La bulla. Se ci pensi, i social media si nutrono di scandali e gossip, e sono molto bravi a dire alle persone quando possono e non possono sedersi vicino a noi. Ma, ovviamente, questo non è Mean Girls. I social media stanno influenzando sempre più l’opinione pubblica, consolidando la polarizzazione politica e alimentando le fiamme della misoginia, del razzismo e dell’intolleranza. Eppure siamo noi a fomentare queste piattaforme, accedendovi e interagendo volontariamente. Un algoritmo da solo non è in grado di bullizzarci. O forse sì? 

Anche se Instagram, posseduto da Meta, ha evitato ogni commento, un portavoce di TikTok ha accettato di dirmi che il suo algoritmo mira a curare i contenuti per gli utenti in base alle loro preferenze. In pratica, ti mostra più contenuti relativi a ciò che ti piace e lo misura attraverso i like, gli account seguiti e i video guardati. Di primo acchito, potrebbe sembrare una cosa utile, ma a pensarci bene se continuiamo a vedere solo le cose che ci interessano, ci richiudiamo sempre più nelle cosiddette echo-chamber, che contribuiscono a rendere la società ancora più divisa. 

Sara McCorquodale, fondatrice dello studio di consulenza sui social media Corq e autrice del libro Influence, ritiene che, sebbene la divisione non sia l’obiettivo dei social media, non si può dire però che non vada a loro vantaggio. “Enormi comunità online si sono ammassate attorno a questioni controverse, e penso che tante persone abbiano sviluppato una sorta di dipendenza nel vedere come reagiscono gli altri e rafforzare così le proprie opinioni”, afferma. “Questa dipendenza le porta a interagire costantemente con i contenuti sui social e ciò va a vantaggio delle piattaforme stesse per le quali l’uso quotidiano e la rilevanza minuto per minuto sono essenziali”.

Lo scopo di un algoritmo è quello di misurare e aumentare il coinvolgimento, perché è così che queste piattaforme fanno soldi: più restiamo collegati, più pubblicità possono propinarci e, se scoprono quali annunci funzionano meglio, ce li propineranno in maggiore quantità. Non deve per forza essere qualcosa che abbiamo cercato, può essere semplicemente un argomento di tendenza. Questo potrebbe spiegare perché i contenuti di attacco ad Amber Heard hanno popolato tanti nostri feed questa estate, senza che lo richiedessimo. 

“I post critici hanno maggiori probabilità di ottenere commenti e condivisioni rispetto ad altri post” sostiene Camille Carlton, responsabile senior su politiche e comunicazione presso il Centre for Humane Technology, un’organizzazione no profit che si impegna a rendere la tecnologia più socialmente responsabile. “Le parole con un significato emotivo nei messaggi aumentano la loro diffusione di un fattore del 20% per ogni parola in più. Finché l’odio funzionerà sarà redditizio e finché gli scandali saranno redditizi queste piattaforme non avranno alcun incentivo a smettere di proporteli”.

Gli scandali sono la linfa vitale di internet. Basti pensare al “paziente zero” del bullismo online: l’ospite del podcast At Your Service della scorsa settimana, Monica Lewinsky. Nel 1998 la sua storia con il Presidente Bill Clinton fu il primo scandalo politico a esplodere online. Nacquero così i siti di gossip, a cui tutti ci rivolgiamo per alimentare i nostri interessi più bassi verso l’umiliazione delle persone famose. I social media hanno sfruttato proprio questo, permettendoci di partecipare attivamente al bullismo. Così facendo, si va a stuzzicare quella che io chiamo ‘attrazione per gli incidenti stradali’. “L’algoritmo misura spesso il coinvolgimento con contenuti che non siano necessariamente ciò a cui siamo interessati davvero o che ci giovano”, concorda Carlton. “Ma sono piuttosto quelle cose dalle quali non riusciamo a distogliere lo sguardo”.

Il portavoce di TikTok mi informa però che gli utenti possono scegliere attivamente cosa non vogliono vedere, filtrando gli hashtag o determinati utenti. “In questo modo le persone devono adottare un approccio proattivo verso i social media, invece di scorrere passivamente i feed, che a questo punto potrebbe sembrare innaturale” osserva McCorquodale. “È anche l’unico modo per combattere le echo-camber, sforzandoci di interagire con i contenuti da varie prospettive sia politiche che di attualità per ottenere un feed più equilibrato e multisfaccettato”. Quindi, se possiamo effettivamente fermare questo fenomeno ma non lo facciamo, siamo soltanto dei bulli senza forza di volontà? “No, ci troviamo davanti un sistema progettato da alcune delle menti più brillanti per cercare di tenerci incollati ai social” afferma Carlton. 

Funziona così: se avessi un’allergia a un certo alimento e il tuo frigo si comportasse come un algoritmo, ti riempirebbe la bocca con quell’alimento ogni volta che lo apri. Se poi dai un morso, la prossima volta che aprirai il frigo te ne propinerà il doppio. L’algoritmo non crea contenuti odiosi e, tecnicamente, non ci forza a guardarli, ma, proprio come il fascino subdolo di Regina George, la sua influenza è tutto... 

Marie-Claire Chappet vive a Londra e scrive su temi relativi ad arte e cultura. Collabora anche con la rivista Harper’s Bazaar

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