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Issue #023 “Fintanto che l’aborto sarà avvolto nel silenzio dal patriarcato, continuerà a essere considerato una vergogna”: Mona Eltahawy ci invita a raccontare le nostre storie per proteggere i diritti delle donne
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A close up of a sign at an abortion rights protest in the United States Getty Images

“Fintanto che l’aborto sarà avvolto nel silenzio dal patriarcato, continuerà a essere considerato una vergogna”: Mona Eltahawy ci invita a raccontare le nostre storie per proteggere i diritti delle donne

Dopo la decisione devastante del mese scorso per le donne negli USA, la prima volta che la Corte Suprema abbia mai eliminato un diritto costituzionale che indubbiamente avrà ripercussioni a livello mondiale, non è mai stato così importante respingere la vergogna costruita deliberatamente attorno al tema dell’aborto, come scrive Mona Eltahawy in questo articolo profondamente sentito


Qualche settimana prima dell’inizio della pandemia, sono andata in una galleria d’arte a New York, dove vivo, per una mostra intitolata Abortion Is Normal. Appesi alle pareti e ai soffitti della galleria c’erano dipinti, fotografie, sculture e installazioni che raffiguravano l’aborto, dall’astratto all’esperienza individuale. 

Nella galleria sprizzava quell’energia per cui New York è famosa, ma c’era un’altra cosa ad affascinarmi quella sera. Mi sentivo come se stessi origliando un circolo di persone che avevano avuto degli aborti e che erano sicure nella consapevolezza che le loro storie sarebbero state accolte con amore e sostegno, senza giudizi. Se le pareti di quella galleria avessero potuto parlare, avrebbero cantato all’unisono: ti capiamo, ti amiamo, l’aborto è normale.

Allo stesso tempo, però, mi sentivo una vigliacca.

Qualche mese dopo mi fu chiesto di scrivere un articolo a sostegno del potente libro You’re The Only One I’ve Told: The Stories Behind Abortion della dottoressa Meera Shah, in cui racconta le vicende personali delle donne che hanno avuto un aborto e che raramente, se non mai, lo hanno detto a qualcuno. Anche se le persone che hanno parlato con la dottoressa Shah non si conoscevano tra loro, mi piaceva l’idea che le avesse immaginate come appartenenti a una comunità simile a quella delle artiste della mostra a cui avevo partecipato.

You’re The Only One I’ve Told: The Stories Behind Abortion, Meera Shah

“Non potevo fare a meno di pensare a come sarebbe stato bello se queste persone si fossero incontrate e avessero potuto condividere le loro storie tra di loro, invece di raccontarle solo a me. Mi sono chiesta se in qualche modo avessi potuto metterle tutte in una stanza e mostrare loro che non sono sole”, scrive la dottoressa Shah nell’introduzione del suo libro.

Ero entusiasta di scrivere il testo della quarta di copertina del libro della dottoressa Shah perché questi temi sono vitali e perché lei è una delle poche donne di colore che conosco ad affermare apertamente di fornire cure abortive. 

Continuavo però a sentirmi una vigliacca.

Come potevo essere entusiasta di condividere sui social media le foto della mostra Abortion Is Normal e incoraggiare le persone a visitarla, se non avevo mai parlato apertamente dei miei aborti? Come potevo essere entusiasta di scrivere il testo della quarta di copertina del libro della dottoressa Shah su storie di aborto, descrivendolo come una lettura rivoluzionaria ed essenziale, se non avevo mai parlato apertamente dei miei aborti?

La risposta breve è che quando si parla di aborto, l’aspetto personale è molto più pericoloso di quello politico. La risposta più lunga è che, come scrive Carol Sanger nel libro About Abortion: Terminating Pregnancy in Twenty-First-Century Americac’è una differenza tra privacy e segretezza.

About Abortion: Terminating Pregnancy In Twenty-First-Century America, Carol Sanger

“Quello che conta è che riconosciamo e apprezziamo l’importante differenza sostanziale tra questi due modi di tenere le cose nascoste quando si tratta di aborto. Nascondere l’aborto nella società contemporanea non ha a che vedere con la privacy ma con la segretezza. La segretezza è un fenomeno più oscuro, psicologicamente faticoso e socialmente corrosivo rispetto alla privacy” afferma Sanger.

E aggiunge: “La decisione di mantenere l’aborto segreto è spesso una risposta alla minaccia o alla prospettiva di vessazione, stigmatizzazione o paura della violenza”. Avevo parlato dei miei aborti solo a qualche amico in privato, ma il mio silenzio pubblico era il risultato della vergogna che, come una sentinella, presidiava la segretezza e mi costringeva a soccombervi.

Era arrivato il momento di parlare.

Fintanto che l’aborto sarà avvolto nel silenzio dal patriarcato, continuerà a essere considerato una vergogna. Quindi ho finalmente rotto il silenzio per liberarmi dalla vergogna, 25 anni dopo i miei aborti.

Nel 1996 ho avuto un aborto “illegale” in Egitto. Per aver violato la legge avrei potuto fare dai sei mesi ai tre anni di carcere. Il medico che eseguì l’intervento rischiò dai tre ai 15 anni di carcere. Il mio fidanzato di allora e suo cugino sarebbero potuti anche loro andare in prigione per avermi aiutato a trovare un medico disposto a fornire cure abortive e per avermi portato nella clinica per abortire. 

Nel 2000 ho avuto un aborto “legale” a Seattle, negli Stati Uniti. Ora che la Corte Suprema ha annullato la protezione federale dell’aborto ribaltando la storica sentenza “Roe v Wade”, le donne incinte che cercano cure abortive in vari stati degli USA possono incorrere nelle stesse sanzioni a me applicabili in Egitto.

Metto “legale” e “illegale” tra virgolette perché respingo il tentativo dello Stato, e della Corte Suprema, di dirmi cosa posso e non posso fare con il mio utero. Quel controllo spetta a me. Ma uso le virgolette anche per ricordare che, indipendentemente dal fatto che un aborto sia “legale” o “illegale”, lo stesso silenzio circonda un procedura medica che è più sicura di una gravidanza. La maggior parte delle persone non lo sa. Così come la maggior parte delle persone non si rende conto che molto probabilmente conosce qualcuno che ha abortito. O, come si dice, qualcuno a cui vuoi bene ha avuto un aborto.

Se non infrangiamo quel silenzio, se non sconfiggiamo quella segretezza, non riusciremo a far uscire il tema dell’aborto dall’ombra e mostrarlo all’opinione pubblica come il diritto umano qual è. E chi si oppone all’aborto riuscirà a soffocarlo nelle briglie della vergogna e dello stigma.

Una gravidanza su cinque finisce in aborto. Non è una cosa rara. 

Uno dei motivi per cui ho finalmente raccontato le mie storie di aborto è che le donne come me di rado si vedono in scenari di aborto. Tre delle donne le cui storie di aborto sono raccontate nel libro della dottoressa Shah provengono, come lei, da famiglie sud-asiatiche e una di loro, come me, è di discendenza musulmana. Queste tre donne hanno riferito alla dottoressa Shah che il fatto di non vedere molte donne della loro etnia in contesti di aborto ha reso i loro aborti più difficili e solitari.

Un altro motivo per cui ho raccontato dei miei aborti è per dire una cosa che da tanto tempo volevo leggere: ho abortito perché non volevo essere incinta. Tutto qui. In tantissime storie di aborto che ho letto era sempre come se le donne stessero implorando un perdono che però nessuno aveva l’autorità di dare. Era come se dovessero dimostrare che fossero “degne” di abortire, sia per il dolore che avevano subito quando erano rimaste incinte (a causa di stupro o incesto) sia per il dolore che avrebbero dovuto subire portando a termine la gravidanza. Era come se dovessero dimostrare che il loro era un aborto “buono” perché loro erano delle “brave” persone.

Io volevo semplicemente dire che non ero stata stuprata, non stavo male, le gravidanze non mettevano in pericolo la mia vita, non avevo già altri figli. Semplicemente non volevo essere incinta. Non volevo avere un figlio. I miei aborti non sono stati traumatici, a essere traumatico è stato piuttosto il silenzio attorno ad essi. Sono contenta di aver avuto quegli aborti perché mi hanno dato la libertà di vivere la vita che ho scelto. 

Per le donne che hanno avuto aborti traumatici, la segretezza attorno a questo tema peggiora la difficoltà e il senso di isolamento proprio nel momento in cui si ha più bisogno del conforto della comunità. 

L’aspetto personale è molto più pericoloso di quello politico perché il primo è dominato dalla tirannia quotidiana del “che penserà la gente?”, una collaborazione di mutismo sociale talmente efficace nella sua abilità di controllo da fare invidia ai servizi di sicurezza più efficienti.

Sia che l’aborto sia stato un sollievo o un trauma, è importante liberarlo da quella tirannia comprendendo ciò che sorregge i divieti di aborto e, di conseguenza, la segretezza che lo circonda. 

I divieti di aborto hanno lo scopo di punirci per aver osato assumere il controllo del nostro corpo e del nostro desiderio sessuale fuori dalle norme prestabilite. Mirano a sorvegliare il nostro corpo e a punirci per il sesso fuori dal matrimonio tra un uomo e una donna. 

I divieti di aborto sono guidati da fanatici e puritani, i dittatori che ogni giorno rafforzano la tirannia del “cosa penserà la gente?”. E se smettessimo di nasconderci? E se sostituissimo la tirannia del “cosa penserà la gente?” con l’audacia della visibilità?

Una delle opere più impressionanti della mostra Abortion Is Normal era l’installazione The Diamond At The Meeting Of My Thighs di Jaishri Abichandani. Quest’opera mi ha rapito e ha richiesto che la circumnavigassi per comprenderla appieno e apprezzarne tutta la meravigliosa audacia. All’interno di una struttura a forma di diamante c’era una figura divina che partoriva un bambino e, guardando più da vicino, si vedeva che aveva partorito anche numerose uova. 

Image of artwork titled: Diamond at Meeting Of My Thighs by
The Diamond At The Meeting Of My Thighs, Jaishri Abichandani, 2015, Craft Contemporary Museum

“L’ho realizzata dopo il mio terzo aborto all’età di 47 anni. Anche se ne avevo già avuti due e ho portato avanti una gravidanza, non è stata una decisione facile perché dentro di me desideravo una figlia”, mi ha raccontato Abichandani. “La mia amica Imani mi ha aiutato a rilasciare quel desiderio in un altro Yoniverse in cui mia figlia potesse esistere senza dover subire alcuna violenza. Ho quindi incanalato quell’energia nella mia opera. La dea sta partorendo un bambino ma ci sono anche tante uova ai suoi piedi che non partorirà come figli ma come arte”.

Mentre Abichandani mi raccontava di come ha trovato l’ispirazione per la sua installazione, sentivo dentro di me una voce che mi sussurrava: “Smettila di nasconderti”. E se avessi parlato dei miei aborti apertamente come ha fatto Abichandani? E se lo avessi fatto, avrei potuto passare quell’ispirazione che Abichandani ha instillato in me come un testimone ad altre donne imbrigliate dalla segretezza sui loro aborti?

Ho accettato questa sfida e ho parlato.

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Per l’elenco di film, libri e opere d’arte che secondo Mona Eltahawy ci aiutano a smantellare la vergogna sul tema dell’aborto e offrono potenti storie a sostegno dei diritti all’aborto, visita i nostri social media.

Mona Eltahawy è l’autrice di The Seven Necessary Sins For Women And Girls e di Perché ci odiano. La mia storia di donna libera nell’Islam ed è la fondatrice della newsletter FEMINIST GIANT

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